Alessandra Mastronardi in Sierra Leone per Unicef:”Ecco la mia Africa”

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Alessandra Mastronardi, come ben sappiamo, ad inizio maggio 2012 è stata ambasciatrice dell’Unicef e si è recata in missione in Africa. Dal set ai villaggi della Sierra Leone l’attrice ci racconta in esclusiva nel suo diario come è cambiata dopo questa esperienza:

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Aeroporto di Freetown, 05 maggio 2012
Accendo il pc dopo giorni. Spero che la batteria non mi abbandoni sul più bello, non avrei la possibilità della corrente elettrica in questo aeroporto… Fuori diluvia, la stagione delle piogge è oramai alle porte. Sono stanca, molto stanca, felice, nervosa, emozionata, vorrei urlare… troppe le sensazioni che percorrono la mia mente in questo momento… Calmati Ale, chiudi gli occhi, riavvolgi il nastro e ricomincia.

Freetown, 29 maggio 2012
È mattino presto, non riesco a dormire. Fuori non sento più i rumori della città. La valigia ancora tutta da disfare fa il paio con il piccolo zainetto che porto sempre con me nei lunghi viaggi di lavoro e che ho senza troppa attenzione lasciato all’ingresso. La stanza è molto fredda, troppo, ma solo con temperature così basse si lotta contro le zanzare. Fuori dalla finestra osservo una lunga distesa di piante verdissime e lamiere, case coloniali semidistrutte e piccoli corsi d’acqua che si allungano verso il mare, l’oceano Atlantico, che bagna la costa di sabbia bianca il cui profilo irregolare è disegnato da un alternarsi di palme e arbusti verdi di ogni tipo. C’è una luce fioca che riesce a mala pena ad accendere l’alba di un nuovo giorno, qui, in Africa Occidentale, in Sierra Leone.

Sono arrivata a Freetown dopo un lungo viaggio in aereo, sospesa tra mille pensieri e riflessioni, riposando un pò, con tanta curiosità e mille domande su un luogo mai visto prima. “Welcome to Sierra Leone the land of big smiles” recita un cartello appeso all’ingresso del ritiro bagagli. C’è una calca tremenda ma l’UNICEF fa letteralmente prelevare la nostra delegazione e portare all’imbarco del motoscafo non prima di aver preso un piccolo pulmino anni ’70, di quelli visti nel film Little Miss Sunshine: tendine bianche, aria condizionata alta, musica afro ad alto volume, sedili a scatto, valigie ammassate. Intorno osservo tanta gente per strada, è buio, ma si vedono qua e là tante piccole baracche con i tetti di lamiera, fuori dalle quali le persone vendono di tutto; ci sono vecchi cartelli della coca cola e un proliferare di manifesti old style che inneggiano slogan di ogni tipo, poi le immancabili insegne delle compagnie telefoniche, le uniche a prima vista ben visibili e non usurate dagli anni. La barca ci porta nella sponda opposta di Freetown, lunga attesa per i bagagli, come anche all’aeroporto, dove ho ancora in mente il caldo, gli odori, le zanzare e le tante persone che ti tirano da una parte all’altra per venderti qualsiasi cosa. Sono arrivata in Africa.

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New England Freetown 29 maggio 2012
Mortalità materna e infantile, assistenza medica per le mamme bambine e prevenzione, lotta alla violenza e gli abusi contro i minori nonché mediazione con le comunità locali, con il governo e le autorità religiose. L’UNICEF Sierra Leone ci accoglie con queste parole chiave nella zona ovest di Freetown, una città sospesa su una montagna di terra rossa, dove ci sono più motociclette che giovani, dove vedi donne ovunque con i bimbi sulle spalle, fiumi di persone che attraversano la città in apparenza senza meta che incrociano sempre il tuo sguardo e ti chiedono se vuoi comprare qualcosa, banane e frutta di ogni tipo ad esempio, che le donne portano in testa per ore su grosse ceste di vimini, con i bambini che ti fanno sempre un “ciao” con la mano e sembra quasi che aspettino un tuo cenno di saluto per essere felici. Gran parte dei cittadini di Freetown vivono in casette senza acqua ed elettricità per molte ore del giorno, ai lati dei marciapiedi grandi scanalature profonde, dividono le strade rosse in due, sono fogne a cielo aperto.

Con lo staff dell’UNICEF e la delegazione italiana ci dirigiamo verso Cline Town nella periferia sud di Freetown. La missione inizia proprio qui. È una settimana particolare dedicata alle vaccinazioni denominata “Maternal and Child Health Week”. Una delle piaghe di queste zone è proprio legata alla mortalità materna e infantile che vede questo paese agli ultimi posti nelle classifiche mondiali. Un bambino su 4 muore prima dei 5 anni, un dato davvero agghiacciante che mi fa riflettere. Mamme e pochi papà con i figli in grembo fanno la fila in questo centro in cui operano i Blue Flag Volonteers e che si occupa di vaccinare i neonati. È impressionante quanto sia importante per la sopravvivenza in questi luoghi per anni afflitti da guerre, malattie e carestie portare questo tipo di attività, impedire che la malaria, il colera, la diarrea, la polio ancora oggi uccidano tanti bambini. Questo corpo di volontari sono dei veri e propri “angeli dell’informazione”, persone che con il loro lavoro “girano ” tutte le comunità per sensibilizzarle ad adottare semplici comportamenti che hanno un’incidenza molto positiva per ridurre questi fenomeni distribuendo sali reidratanti, zanzariere oppure spiegando l’importanza del semplice lavaggio delle mani e dell’igiene. Mi ha molto colpito come attraverso una macchina ed un megafono questi volontari entrino dentro le case, i mercati, i negozi e vaccinino i piccoli bambini di queste comunità anche negli slum oppure nei PHU (Periferical Health Unit), centri di prima assistenza dove, grazie ai kit di aiuto dell’UNICEF vengono curate le gravidanze a rischio o i neonati in condizioni gravi.

Informare, informare ed informare, sembra la parola chiave per cercare di far arrivare il messaggio di questo tipo di interventi al maggior numero di popolazione. A prima vista “servirebbe un’impresa”, negli occhi di chi ogni giorno da volontario opera in questa zone non è così. Lo si legge subito nei loro sguardi intensi e convinti. Per questi volontari bisogna arrivare al maggior numero di persone possibili e spesso è difficile, quasi impossibile. L’ospedale è lontano e se non si interviene in questa maniera si rischia una strage al giorno. Saluto questi angeli con le lacrime agli occhi e torno alla base, domani mi attende un viaggio lungo e faticoso “dentro” il cuore di questo Paese.

SI PARTE X BO UN VIAGGIO NEL CUORE DEI PROBLEMI DELLA SIERRA LEONE

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Distretto di Bo, 30 maggio 2012
Si parte per Bo. C’è una lunga autostrada che attraversa e taglia in due queste zone portandoci nell’estremo sud est di questa regione. La strada in prossimità di questi centri si fa davvero difficile da attraversare perché distrutta da buche profondissime e solo la perizia degli autisti del posto è in grado di farci arrivare a destinazione. Cambia la natura, come per magia, che si fa più fitta. Al rosso di Freetown fa da contrasto un verde bellissimo, tanti piccoli villaggi si aprono davanti ai miei occhi dal nulla. La macchina corre veloce, la gente fa altrettanto e si assiepa incuriosita ai bordi della strada. Ha fame e spera nella nostra sosta per poter mangiare qualcosa. Ma sempre col sorriso. La missione sul campo prevede delle tappe ben precise, è un viaggio all’interno di una terra distrutta e derisa da una lunga guerra finita oramai da anni, che ha lasciato profondi segni nei volti, nelle coscienze, nelle abitudini di questa popolazione che ha saputo ben reagire. Troppe ancora purtroppo le ragazze madri che neanche maggiorenni sono costrette a lasciare gli studi per assistere i loro bambini. Troppo alto il tasso di analfabetismo, troppe le violenze taciute all’interno delle comunità. L’UNICEF cerca di assisterle, di aiutarne i percorsi di inserimento, Un’azione davvero unica. Sono pronta.

IL PICCOLO M. E LE GIOVANI INCINTE. VOGLIA DI TORNARE A SCUOLA. VOGLIA DI VIVERE

Distretto di Kenema 1 giugno 2012
Il piccolo M. si avvicina a noi con un occhio gonfio ma un sorriso che mi contagia. Difendeva l’area in cui il papà lavora quando è stato colpito da uno sconosciuto che ammantava diritti proprio su quella zona. Una violenza inaudita ed un occhio in gravi condizioni per fortuna in via di guarigione. Parla a stento. Il crio, la lingua ufficiale sierraleonese, non è facile da capire mentre altrettanto è chiaro nei suoi occhi il dolore e lo shock. Non è un episodio isolato ma M. sembra un bimbo forte. Nel centro che abbiamo visitato a Kenema e che lo assiste trova “accoglienza” e “protezione”, due pilastri dell’azione che l’UNICEF svolge in queste zone. Rafforzare gli strumenti legali, per creare giustizia sociale attraverso leggi e rimando di questi casi alla magistratura locali per tutelare questi bambini sono fondamentali in zone in cui per anni tutto si è svolto secondo le regole delle comunità o nell’omertà più assoluta. Lo saluto mentre mi sorride sarcastico e timido al tempo stesso. È in buone mani. Mancano i fondi per raggiungere tutti i bambini e le madri di questo paese per questo è fondamentale prevenire certe situazioni così gravi. È un sistema debole ancora quello della Sierra Leone che con difficoltà integra ogni parte del paese, per questo ho capito che il lavoro dell’UNICEF è fondamentale qui, da una parte per chiedere ai governi maggiore impegno ed alle comunità di lavorare per assistere le donne e i bambini su temi fondamentali come le prevenzione, la lotta alla discriminazioni, alle violenze agli abusi. F. ad esempio è una ragazza di 13 anni. Hanno abusato di lei facendola salire sulla macchina e convincendola di essere amici dei suoi parenti. Non riesce a parlare ed ha la sguardo fisso. Me la presentano le assistenti della comunità chiedendomi se voglio rivolgerle delle domande. Io la vorrei solo abbracciare, vorrei toglierle quel velo di terrore dagli occhi. G., M., T., sono tre ragazze madri (hanno avuto i loro bimbi intorno ai 13 anni). Si sciolgono subito. Il loro problema è che l’uomo che le ha messe incinte è sparito oppure non si assume le sue responsabilità, mentre i genitori le hanno cacciate di casa. Qui trova accoglienza la loro disperazione. Nei primi anni di vita dei bimbi hanno abbandonato gli studi, oggi però mi dicono che vogliono riprendere a studiare! Una bella notizia che mi fa sorridere con loro mentre i piccoli che hanno in grembo mi sorridono e fanno qualche smorfia. L’UNICEF mi spiega che queste mamme bambine vanno assistite continuamente. Questo fenomeno si sconfigge attraverso la sensibilizzazione dei rischi e pericoli che una ragazza bambina corre. Rischi medici, abbandono scolastico, educativo e sociale perche spesso vengono abbandonate letteralmente dal nucleo sociale oltre che a perpetuare uno stato di povertà di se stesse e della famiglia. Insomma restano incinte, i genitori le abbandonano, il marito fugge e diventano poverissime. Non è ammissibile vanno protette e aiutate.

PUNTARE SEMPRE SULLE GIOVANI DONNE

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Bo, Kenema, Puhnjeun 3 Giugno 2012
È stato un viaggio dalle grandi emozioni. Contrastanti, forti, impetuose, che solo questo continente sa dare. Da Bo, il “quartier generale” da cui ci siamo mossi per andare fino al sud di questo bellissimo paese, ho attraversato i distretti di Kenema, Punhjeun e Bumpeh Peri, in un continuo alternarsi di strade sterrate, buche, vegetazione, laghi naturali e fiumi incontrando bambini, operatori umanitari, capi di comunità locali, capi villaggio, artisti, studenti, tutti insomma! Un percorso che mi ha fatto capire che qui l’infanzia e l’adolescenza vanno protette sempre, in ogni luogo, che l’informazione è alla base dello sviluppo umano. Ma soprattutto che le donne, motore di questa società, devono essere messe nelle condizioni di diventare protagoniste del cambiamento attraverso politiche certamente di prevenzione, ascolto e assistenza, ma anche di coinvolgimento dei partner, degli uomini, nella certezza che è attraverso il loro impegno che questa società può migliorare. Non riesco a non pensare agli occhi velati delle due piccole tredicenni di Kenema violentate ed accolte nei centri delle ong partner dell’UNICEF o delle bellissime madri, giovani madri, che hanno trovato la forza di riprendere gli studi e dello sforzo che fanno gli operatori del posto quotidianamente per non escluderle dalle loro comunità ma al contrario sviluppando percorsi di integrazione e dialogo. Ma si deve e si può fare di più. Senza la pretesa assoluta di cambiare una cultura, un modo di vivere ma con l’ambizione di provare a migliorarne gli stili di vita. Le donne, le ragazze, in questi luoghi, sono spesso vittime. Le donne crescono i bambini, stanno in casa, provvedono quasi a tutto. Bisogna puntare sempre più su di loro. Credo si possa davvero non solo sensibilizzarle sui comportamenti sessuali coinvolgendo tutti, le famiglie che spesso le “mettono alla porta” relegandole a sicura povertà, gli uomini, che fuggono le loro responsabilità quando il “danno” è commesso, ma anche i chief locali, le associazioni, la polizia. Solo portando coscienza di sé e consapevolezza a queste donne, a scoprirsi protagoniste come accaduto per le grandi rivoluzioni degli ultimi secoli, questa terra dalle mille contraddizioni e dalle grandi povertà potrà risollevarsi. Mi sento cresciuta oggi. Come testimonial dell’UNICEF sento di poter fare tantissimo al mio ritorno in Italia. Giuro che lo farò.

RACCONTARE I PROBLEMI ATTRAVERSO IL TEATRO. CULTURA AL SERVIZIO DELLO SVILUPPO

Distretto di Kenema 3 Giugno 2012
Sensibilizzare attraverso il teatro, lo dico da attrice, è fondamentale e gli insegnanti in questi contesti sono fondamentali. Nella scuola di Kenema veniamo accolti con la delegazione dell’UNICEF da una classe festante. Un turbinio di sorrisi e musicalità inedito, magico, mai visto. Parte un ritornello che canticchierò i restanti giorni del viaggio che dice “welcome unicef, welcome unicef welcome everyoneeee!!!” . Che emozione indescrivibile. Grazie al supporto di una ong locale, l’UNICEF fa in modo che attraverso l’arte e la creatività i giovani vengano sensibilizzati a tematiche quali la non esclusione sociale, la prevenzione, i comportamenti sessuali, il dialogo nelle comunità. Questi piccoli attori in erba, tutti bravissimi, tutti pieni di grande talento naturale, hanno messo in scena la necessità che all’interno delle comunità non vengano abbandonate le donne incinte, di fare in modo che sia il dialogo la forma più alta di soluzione dei problemi al loro interno. Ciascuno ha una parte ben precisa. C’è un ragazzino che mi ha particolarmente colpito per la sua bravura che indossa il vestito tradizionale della Sierra Leone. Ha interpretato alla grande il suo ruolo! Pensate che alla fine è venuto ad abbracciarmi, quasi mimando un baciamano degno del migliore dei romantici, un vero spasso. Davvero un lavoro di qualità. Sono rimasta molto colpita dalla bravura e dalla capacità di molti di questi bambini ad esprimersi su tematiche non facili legate alla esclusione sociale, all’abuso, alla maternità precoce, alle violenze. È un modello, quello utilizzato da UNICEF e dalle ong partner per coinvolgere i giovani, interessarli alle tematiche che affliggono la loro società, renderli consapevoli e perché no, occupati, assolutamente vincente, da esportare nel paese. Dai tempi della Grecia il teatro serviva per sensibilizzare, parlare al popolo, rappresentarne i problemi. Questa forma di impegno potrebbe essere diffusa nelle scuole e nelle comunità africane non solo per creare consapevolezze, (in alcune zone già si fa) ma per far intraprendere a questi giovani anche un percorso di crescita culturale. Svilupparne la creatività. Proporrò nelle riunioni dei prossimi giorni che questo tipo di iniziative vengano sviluppate in tutte le scuole dei distretti della Sierra Leone. Esiste modo migliore per far “passare un messaggio” della rappresentazione teatrale di esso? Sono sicura di no. Magari, chissà, qualcuno di loro si scoprirà così bravo da voler anche intraprendere questa carriera. Bisogna comunque proteggerli. I bambini africani devono essere messi nelle condizioni di poter essere protagonisti attivi del loro futuro. Serve un impegno forte di tutti per realizzare percorsi di sostegno psicologico formando sempre più personale in loco, che aiutino questi piccoli e giovani ad uscire dai drammi vissuti. L’ho ripetuto continuamente qui. Il teatro può essere una delle soluzioni per “spiegare” ed “impegnare”, per dare quella spinta culturale di cui questo paese ha tanto bisogno.

LE COMUNITÀ LOCALI. IL PARAMOUNT CHIEF. L’OSPEDALE

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Villaggio di Bumpeh Peri 04 Giugno 2012
È il giorno del Paramount Chief. No, non è il titolo di un film. È il nome del “capo dei capi” del villaggio che ci accoglie nel villaggio più sperduto e lontano di tutti, Bumpeh Peri, che si apre agli occhi al termine di una lunghissima strada sterrata strettissima immersa nella foresta, al termine della quale un lago fa da sfondo ad un alternarsi di capanne di grandi e piccole dimensioni. Stavo proprio approfittando di uscire dalla macchina per godermi la bellezza di quel lago che una impressionante “onda” di persone con a capo quest’uomo vestito con cappello ed abito lungo bianco mi si fanno incontro ballando e cantando canzoni del posto. Mi attende l’ennesima grande emozione. Tutto il villaggio, credetemi tutto, si schiera ai bordi della strada. Un giovane travestito da leone con un costume di paglia (faceva caldissimo ero in pena per lui) balla incessantemente per noi. Il Chief dall’aria bonaria ma anche di uno che “la sa lunga” ci conduce sotto un grandissimo patio. Circa 500 tra bambini e membri della comunità sgomitano per ascoltare il saluto del loro capo nei confronti della delegazione UNICEF, che, scopriamo, attendono da un anno! È dunque l’evento più importante per loro. I bimbi impazziscono per le macchine fotografiche, sgomitano e si fanno largo per sedere vicino a noi. Pregano in tre religioni diverse e cantano il loro inno nazionale, un momento davvero bello. Poi l’ennesima bellissima piece teatrale, questa volta fatta da attori più grandi che, ci raccontano, girano ogni giorno la Sierra Leone per rappresentare l’importanza di comportamenti sessuali responsabili ed il dialogo all’interno della famiglia sotto una chiave umoristica. Sono molto divertita e gli attori sono bravi e molto calati nella parte. Fa caldissimo ed il chief ci offre subito lattine di bevande occidentali poi come da rito tutti nella sua casa dove si pranza a base di cibi locali. Ci accoglie con tutti gli onori…e la sua terza moglie!! Qui a Bumpeh Peri c’è un nuovo ospedale appena costruito. Ci sono sale parto ed alcuni macchinari utili per i ricoveri più difficili. Il Chief ce lo mostra con una punta di orgoglio ( insieme ad un garage dove sono parcheggiate due motociclette con un kit di pronto intervento!) ma chiede più impegno ai paesi donatori. Questo luogo è lontanissimo dall’ospedale più importante e funzionante della zona, quello di Punhjeum, (a due ore da Bumpeh) finanziato dall’UNICEF Italia e necessita di una struttura forte in loco altrimenti il tasso di mortalità materna e infantile continuerà ad essere altissimo. Impegno preso! Anche di questo me ne farò carico al mio ritorno in Italia con i nostri donatori. Un abbraccio al chief poi si torna indietro destinazione Freetown. Sono piena di speranza, questo villaggio sembra funzionare una meraviglia!

MIO BREVE PENSIERO SU DONNE ED AFRICA

Freetown 03 Giugno 2012
Pensavo senza voler buttar giù troppe righe, che vista la condizione femminile generale nella società africana occorre dare maggiore informazione sull'”empowerment alle donne”, ma occorre lavorare molto sul ruolo dell’uomo che è parte del problema ma anche della soluzione e va ulteriormente sensibilizzato e coinvolto. L’Unicef cerca di farlo attraverso le comunita locali, gli insegnanti e le comunita religiose per un vero e proprio behaviour change. Ma occorre fare di più. Molto di più. Tutto qui.

AL TERMINE DELLA MISSIONE UNA PROMESSA DI IMPEGNO E UNA RIFLESSIONE

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Freetown 04 Giugno 2012
L’Africa è un misto di odori, di occhi neri che ti guardano, ti scrutano ma non ti chiedono aiuto. Sembrano invece invitarti a parlare con loro. La Sierra Leone è davvero, come è scritto sul cartello al suo ingresso “il paese dei grandi sorrisi”. Sorrisi di ragazze che ho potuto ascoltare, di giovani mamme abbandonate che vogliono tornare a scuola. Di bambini festanti che ti salutano ovunque e che ti accolgono sempre ballando ed abbracciandoti solo per il gusto di condividere con te momenti di felicità, la loro, che forse non ha nulla da invidiare alla nostra (vera o presunta) e che si manifesta così, con l’entusiasmo di chi la sera va a dormire in case di fango e argilla, senza stanze e con i tetti in lamiera, che quando passi con la macchina si ferma a guardarti solo anche per uno sguardo o un piccolo sorriso, dove se in crio domandi “Aw di bodi?” (come stai?) ti rispondono sempre e nonostante tutto, “A wel” (bene). È anche il paese dove tanti volontari come Sara, 30 anni di Roma, lasciano tutto per trasferirsi a Freetown, con l’UNICEF, e lottano ogni giorno per cambiare le cose. L’Africa che porto dentro di me è quella dei giovani di Bumperhi Peri che ballano e cantano con il loro Paramount Chief per festeggiare il nostro arrivo che attendevano da un anno, che pregano tenendosi per mano in musulmano e cristiano, che hanno ospedali con reparti di maternità che cominciano lentamente a funzionare. È il paese dei tanti volontari, come quelli della BLUE FLAG che girano le comunità per monitorare e convincere a far vaccinare contro malattie mortali /tetano, diarrea, malaria i villaggi nella periferia più profonda di Freetown, che mi dicono con gli occhi pieni di orgoglio che vorrebbero arrivare “ovunque” ma non hanno sufficiente sostegno. L’Africa che ho visto, la Sierra Leone, è il paese che ti fa salire una rabbia tremenda perché vorresti tu da sola di fronte alla desolazione del buio delle cliniche pediatriche o degli slum pieni di rifiuti, poter risolvere tutti i loro problemi. Delle scuole di Kemala con le sedie di legno senza finestre ma ricche di alunni preparatissimi e felici. Non so quando tornerò. Ma ho una certezza: che esistono delle grandi battaglie che vanno combattute proprio nei nostri paesi per sensibilizzarli su questioni come gli abusi sulle giovani donne che non riguardano solo l’Africa ma che oggi sono di stretta attualità anche in Italia. È per questo che intendo impegnarmi e battermi nei prossimi mesi con UNICEF. Per sostenere le ragazze di Freetown e dell’Africa perché facciano tesoro delle loro consapevolezze, perché i loro diritti spesso calpestati vengano affermati e riconosciuti. Per la loro istruzione, che può divenire determinante per far crescere la società. E per i loro figli. Quelli con gli occhi neri che porto dentro il mio cuore mentre scrivo ed aspetto l’aereo dopo una faticosa ma indimenticabile missione sul campo in Africa.

TENKY TENKY UNICEF. TENKY TENKY SIERRA LEONE

* testo raccolto da Andrea Iacomini Portavoce UNICEF Italia
* Foto di Alessandro Pizzi@UNICEF
La delegazione era composta da Alessandra Mastronardi, Vanessa Bozzacchi Pr ed Ufficio Stampa Alessandra Mastronardi, Alessandro Pizzi fotografo, Sara Vaggi communication officer UNICEF Sierra Leone, Andrea Iacomini Portavoce UNICEF Italia.

– Galleria fotografica della missione:

 – Lo stesso diario che avete letto lo trovate sulla rivista “Io Donna” del 23 giugno 2012:

– Un altro articolo riguardante questa missione per Unicef è stato pubblicato sulla rivista “Gente” N.52 del 4 agosto 2012:

– Anche la brochure  “Un mondo più morbido” N.17 del 27 aprile 2015 ha dedicato un servizio al viaggio di Alessandra in Sierra Leone:

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